Non tutti i Brand sono cosi, NOI  "Abbiamo scelto con chi lavorare" a favore del cliente finale e dell'ambiente in cui viviamo con i nostri figli , assistiamo prodotti  dal giusto prezzo che durino nel tempo e abbiano la possibilita' di essere riparati,  "NON PRODOTTI USA E GETTA A  POCHI  EURO... Non Assistiamo Brand che spendono piu' di pubblicità che per assistere il prodotto venduto ( con pochi centri di assistenza qua e là , con numeri verdi in Romania o in India per contattare un centro d'assistenza tecnica) non rispettando il cliente finale ma pensando solo al numero di pezzi venduti.

Videocenter snc

 

 Obsolescenza programmata, beni progettati per “scadere”

 

Elettrodomestici, apparecchi tecnologici, automobili… ma anche vestiti e utensili. Tutto è progettato per durare il meno possibile, perché il mercato deve essere in continuo movimento L’obsolescenza programmata è linfa vitale per il mercato e nota dolente per i consumatori.
Elettrodomestici, automobili, utensili, apparecchi tecnologici: tutto ciò che si
compra ha una data di scadenza (non sovraimpressa come avviene per i generi alimentari, ma implicita: secondo alcuni coinciderebbe addirittura con la fine del periodo coperto dalla garanzia)

È solo questione di tempo: prima o poi l’oggetto si guasterà irreparabilmente e andrà sostituito con uno nuovo. Altrimenti il mercato morirebbe. Oppure l’apparecchio può non rompersi, ma risultare comunque obsoleto, vecchio, superato. Un pc o un telefono cellulare di dieci anni fa, seppur funzionante, è considerato “preistorico” e il proprietario si sente fortemente spinto a sostituirli con nuovi modelli.

L’obsolescenza programmata permette, quindi, di commericalizzare solo ciò che è stato progettato per smettere di funzionare o cadere in disuso. Eventuali riparazioni di un oggetto guasto risultano, la maggior parte delle volte, talmente costose da dissuadere il cliente, che finisce per acquistare un sostituto nuovo di zecca. Tutto ciò va a produrre una quantità disarmante di rifiuti: ogni anno si accumulano tonnellate di frigoriferi, automobili, televisori, etc. etc. da smaltire. Non è raro che una giovane coppia si trovi a dover sostituire una lavatrice in una manciata di anni, mentre i nonni di questa giovane coppia hanno ancora in casa un frigorifero perfettamente funzionante, comprato alcuni decenni orsono.

Manfrys così definisce il fenomeno:

Obsolescenza programmata è il “consumare entro il” dei prodotti alimentari, ovvero un bene costruito con l’intento di invecchiare rapidamente o “spacciato” per nuova tecnologia. Tutto ci viene venduto come la “soluzione definitiva”, “tutto in uno”, “universale”, “espandibile” eppure compriamo già consapevoli che il bene invecchierà per tecnologia, che tutto è venduto in virtù dei “consumabili” e che alcuni oggetti hanno batterie che non è possibile sostituire … il bene sarà “obsolescente” prima ancora delle batterie.

Poca Cola riporta l’esempio delle lampadine alogene, le lampade a incandescenza che erano praticamente perfette e programmate per essere eterne, quindi non funzionali al mercato. Allora, dopo qualche ricerca “scientifica” si è riusciti a ottenere quanto il mercato richiede: anche le alogene dopo un po’ si fulminano, si bruciano e vanno sostituite. Altri esempi riportati nel blog sono quello delle automobili, quello dei frigoriferi e del mondo dell’informatica:

L’industria automobilistica strombazza circa le virtù delle nuove carrozzerie delle vetture, garantite contro la ruggine per ics anni; in realtà, esse sono garantite per la ruggine esattamente dopo ics anni. Così come i motori sono programmati per rompersi dopo tot anni, le marmitte a bucarsi, i carburatori ad intasarsi, le centraline elettroniche a inchiodarsi, eccetera eccetera. Ci fu se non erro una volta un tale che produsse una macchina garantita per mille anni, ovvero progettata per non rompersi. Fallì miseramente.

Chi per caso si ritrova in casa un vecchio frigorifero degli anni cinquanta, comprende quali passi da gigante abbia nel frattempo compiuto l’industria. Il frigo degli anni cinquanta infatti non si romperà mai – un clamoroso errore di progettazione! I bellissimi frigoriferi moderni invece, riescono ad unire ad un aspetto sano, funzionale ed indistruttibile, l’invisibile garanzia di una data di autodistruzione prefissata…..” (Liberamente tratto da un’ articolo di Roberto Quaglia per Delos)

Da qui sorge spontaneo un altro pensiero che avevo letto chissà dove: ” Nel mondo dell’ informatica non ci sono magazzini”. Una cosa nota a molti forse, ma sulla quale non sempre ci si sofferma. Il segno evidente della voracità di un mercato. Uno standard hardware non resta sul mercato per più di un anno e mezzo, dopo qualche mese è praticamente impossibile trovare pezzi di ricambio. La macchina muore. Si passa al nuovo. Il magazzino non serve.

Il Fatto Quotidiano (precisamente nel blog di Maurizio Pallante e Andrea Bertaglio) analizza il problema degli oggetti che si rompono “a tempo determinato”, includendo non solo elettrodomestici e apparecchi hi-tech, ma anche abbigliamento, accessori, pentole e utensili; quasi ogni bene di consumo sarebbe, insomma, soggetto all’obsolescenza sempre più rapida:

Avrete sicuramente notato come i prodotti che ci ritroviamo ad acquistare ed utilizzare abbiano una durata sempre più breve. Borse, scarpe e vestiti che si rompono, scollano e sfilacciano dopo poche settimane o mesi che li si indossano; pentole e padelle antiaderenti (che già vanno, nonostante l’incredibile praticità e comodità, contro lo spirito stesso del cucinare, che richiede abilità e pazienza, e che è un’arte del saper aspettare e dell’avere continuamente cura di qualcosa), che si scrostano letteralmente al decimo lavaggio; asciugacapelli, lavatrici ed elettrodomestici vari che si inceppano (o in certi casi prendono addirittura fuoco!) sempre e comunque “in giovane età”; telefoni cellulari e fotocamere digitali che si rompono misteriosamente a pochi mesi dall’acquisto… Si potrebbe andare avanti all’infinito.

Ma perché accade tutto ciò? Perché frullatori risalenti anche agli anni sessanta ricevuti in dono, o in eredità, dalle nonne funzionano benissimo dopo mezzo secolo mentre la fotocamera, appunto, acquistata un anno fa, non dà più segni di vita dopo che magari il suo display si è rotto semplicemente stando in una borsa e che, a parere del negoziante vicino a casa, non può essere assolutamente riparata (a meno che non si vogliano spendere cifre esorbitanti), ma può solo essere sostituita in toto ?

Perché non possiamo più riparare qualcosa ma solo sostituirlo (per poi magari stupirci delle “emergenze rifiuti”)? Le risposte sono varie e più o meno complesse, ma, a parte il fatto che nella maggior parte dei casi abbiamo perso ogni capacità, anche solo di iniziativa, riguardante la riparazione degli oggetti che ci circondano e che ovviamente in certi casi non possiamo avere dall’oggi al domani (come si può poi avere la competenza di riparare una fotocamera elettronica?), i motivi principali risiedono nel dubbio che, visto che ai geni del marketing e dell’informazione far apparire ogni cosa obsoleta ogni poche settimane dopo la sua uscita sul mercato non basta più, le merci (tutte, dalla più semplice alla più tecnicamente avanzata) hanno un’obsolescenza programmata, e che ormai si progetta la stragrande maggioranza dei prodotti in modo che si guastino o addirittura si debbano sostituire entro periodi sempre più brevi.Sempre più persone hanno iniziato però ad essere insofferenti a questo ennesimo tipo di presa in giro che arreca danni non solo all’intero “villaggio globale”, dai lavoratori sfruttati nei Paesi in via di “sviluppo” per produrre questa merce-spazzatura ai consumatori dei paesi “sviluppati”, ma anche ovviamente all’ambiente. Sempre più persone hanno iniziato a sentirsi profondamente infastidite dalle continue promesse di frivola felicità propinateci quotidianamente dai paladini della società dei consumi e della crescita economica (gli stessi, per intenderci, che con le loro speculazioni finanziarie e privatizzazioni selvagge ci hanno portato all’attuale “crisi”). Sempre più persone sentono la naturalissima esigenza di sfuggire a queste “logiche illogiche” ed alle tensioni e frustrazioni che ne conseguono.Che fare, allora? Si potrebbe iniziare a re-imparare gradualmente a prodursi il più possibile i propri beni (cosa che urge anche ai sottoscritti), e smettere di comprare tutto ciò che non ci serve davvero (bandire il più possibile, per quanto possa suonare radicale, lo “shopping” dalle nostre vite)..Questo non come ripudio totale della società in cui viviamo, non come voto di rinuncia, ma come allenamento per ciò che ci attende nei prossimi anni (che, nonostante i proclami ottimistici di economisti e politici, non sarà recessione, ma depressione), ossia una decrescita che per i più sarà forzata, e probabilmente non così felice. Perché questa è forse l’unica forma di reazione, o addirittura di rivoluzione, che ci è rimasta nei confronti del marketing, della politica, della finanza e della crescita, che giocano sempre più con le nostre vite e che, più che delle persone, ci ritengono da parecchio tempo solo dei meri “consumatori”. Esercitiamo quindi l’ultimo vero potere che abbiamo, che non è il nostro diritto di voto, ma quello che abbiamo appunto come “consumatori”: decidere cosa comprare e soprattutto cosa non comprare. E quando dobbiamo acquistare qualcosa, teniamo almeno presente i vecchi proverbi, sempre molto validi e molto attuali, tipo quello che dice che “chi più spende, meno spende”, provando a ridare in generale più importanza alla qualità, che alla quantità.Il giornalisti de Il Fatto prendono in considerazione alcuni aspetti importanti che gravitano attorno alla questione obsolescenza programmata: per esempio, gli oggetti che si guastano, poi “misteriosamente” non si possono mai aggiustare. Tentano anche di dare dei consigli pratici, invitando il consumatore a una responsabilizzazione e una presa di coscienza non indifferente: è necessario ridurre i consumi, o perlomeno renderli più ragionati e consapevoli. Importante anche la considerazione sull’ambiente e l’inquinamento che il ricambio continuo di merci comporta. Ne parla anche Fuzzy Blog.La moderna filiera che dalla produzione dei beni perviene alla distribuzione e al consumo, pare a molti di noi un sistema perfetto che dà tanto con poco sforzo. Ma cosa c’è dietro questi processi? Quali compromessi sul piano della salvaguardia dell’ambiente? Se non avete mai sentito parlare di “obsolescenza pianificata” o pensate che il riciclaggio sia la “cura” definitiva contro l’inquinamento, vi consiglio la visione di The Story of Stuff di Annie Leonard .Il video di Annie Leonard è particolarmente citato dai blogger. È visibile (oltre che in lingua originale ) nella versione doppiata in italiano: La Storia delle cose parte 1, parte 2, parte 3. La Leonard è un’attivista statunitense che si è fatta conoscere con questo breve documentario che espone i costi sociali ed ambientali del nostro sistema di produzione e consumo. Lo segnala, ad esempio, Vinz in brussels: Oggi vorrei segnalare questo video “the story of stuff”, dove si spiega perché il consumismo, oltre ad essere devastante per l’ecosistema, condanna all’infelicità coloro che lo praticano.Annie Leonard, l’autrice, ci parla della material economy che in soli tre decenni ha dilapidato un terzo delle risorse della terra. Il 99% di quanto prodotto finisce in discarica nel giro di 6 mesi. L’era d’oro del consumismo non è arrivata per caso, ci dice la Leonard. Nel dopo guerra per dare nuovo slancio all’economia si decise di fissare come proposito ultimo della società non garantire cure sanitarie, istruzione, trasporti sicuri, sostenibilità, giustizia..etc. ma la produzione di beni di consumo. Si introdussero concetti quali obsolescenza programmata e obsolescenza percepita. La prima si riferisce al tempo minimo che un produttore deve far durare un bene senza che venga meno il desiderio del consumatore di acquistarne uno nuovo. La seconda serve per convincerci a gettar via cose perfettamente funzionanti o utilizzabili. Cambia il design in modo da rendere immediatamente visibile l’epoca dell’acquisto. Se indossiamo scarpe o giubbotti di tre anni fa tutti se ne accorgono all’istante. Pubblicità e media hanno un ruolo essenziale in tutto ciò. Oggi si guarda più pubblicità in un anno di quanta se ne vedesse 50 anni fa nell’intera esistenza. Qual’è lo scopo della pubblicità se non quello di renderci infelici con quanto abbiamo? Ci viene detto che le nostre scarpe sono sbagliate, la nostra pelle è sbagliata, la nostra auto è sbagliata. Che noi siamo sbagliati e che il rimedio è nel fare shopping. Negli Usa si consuma più che mai ma il livello di felicità è in costante diminuzione dal suo picco degli anni 50 in coincidenza con l’esplosione del consumismo. Abbiamo più cose ma meno tempo per quello che ci rende davvero felici, amici, famiglia, svago. Lavoriamo più che mai. Viviamo nell’epoca in cui si ha meno tempo libero dall’era feudale. E quali sono le attività prevalenti nel tempo libero? Guardare la TV e andare al centro commerciale. Si va a lavorare, magari si ha un secondo impiego, si ritorna a casa e ci si rimette davanti alla tv. E il Loop ricomincia. Il documentario della Leonard e gli esperimenti di No Impact Project (provare a vivere una settimana ad impatto zero a favore dell’ambiente con una serie di comportamenti che vanno dall’utilizzo dei mezzi pubblici al posto dell’automobile ad alcuni accorgimenti in campo dell’alimentazione e produzione di rifiuti domestici) hanno ispirato alcune riflessioni a Vivinverde.Nel frattempo, dopo aver sostituito il frigorifero che ci aveva servito per ben 18 anni (ah, care vecchie generazioni), anche la lavastoviglie, di soli 3 anni di vita, è andata a farsi (a voi la scelta del termine più adatto), quindi al momento sono tornata al caro vecchio estinto sistema della vaschetta. Vi chiederete i due argomenti cosa hanno in comune (No impact projet e l’essere abbandonati da un’elettrodomestico) ebbene ecco la risposta, mentre mi preparo ad affrontare la mia settimana ad impatto zero, che dovrebbe definitivamente cambiare le cattive abitudine di tutta la famiglia, studio i manuali messi a disposizione dal progetto e trovo un link interessante ad un video molto carino, The Story of Stuff, che sono riuscita a trovare sul tubo in italiano: La Storia delle Cose, io ve lo consiglio. In questo video si parla di obsolescenza programmata 2012era, partendo dal racconto di un’esperienza personale (elettrodomestici che si guastano all’unisono e conseguente decisione di arrangiarsi senza correre immediatamente a fare nuovi acquisti) finisce per lanciarsi in un invito ai limiti dell’utopia:In queste ultime settimane a casa siamo stati vittime di una tecnocospirazione tra elettrodomestici solidali che si sono fulminati in rapida successione, seguendo un oscuro disegno di obsolescenza programmata. Ha cominciato il folletto, seguito da macchina fotografica, laptop, schedine varie, televisione, fino alla macchinetta per tagliarmi i capelli (e mi sembra di non averli ancora nominati tutti). Per ciascuno di questi problemi abbiamo scoperto di avere una soluzione alternativa, proveniente dall’utilizzo o dal riuso di qualcosa che avevamo già in casa. Ci siamo cioè sottratti a quella visione che prevede la corsa all’acquisto di qualcosa appena si percepisce un bisogno. Non siamo certo gli unici a vederla in questo modo: il percorso della decrescita felice va di pari passo con il crollo del potere di acquisto e con l’aumento della sensibilità verso i problemi del pianeta che abitiamo. E come la mettiamo allora con le previsioni del marketing, le strategie sui social media, le ricerche semantiche e i sogni di crowdselling? Non necessariamente queste strade devono dividersi.e la tecnologia ha un’anima saprà rendere le nostre vite migliori, ma non al suo ritmo. Dobbiamo sincronizzarci al ritmo della natura con la quale dobbiamo recuperare la nostra relazione, restituendole il tempo sottratto alla filiera della iperproduttività iperpresenzialista proprio grazie a un utilizzo mirato delle soluzioni a nostra disposizione. Dobbiamo scendere dall’astronave della tecnologia e mettere i piedi sulla terra, ascoltarne le vibrazioni, sentire il suo lamento, godere dei suoi frutti che saprà restituirci generosamente. Quando ricorderemo di essere noi la tecnologia più perfetta che sia mai stata realizzata torneremo a guardare alle prospettive sociali (dai social network alla geolocalizzazione) come a interessanti opportunità per ricreare quelle condizioni che le grandissime civiltà del passato come i Maya ci hanno indicato e che noi dobbiamo consegnare alle prossime generazioni.Sotto osservazione pubblica una lunga intervista di Felicia Masocco a Serge Latouche, in cui il famoso economista, professore universitario e filosofo definisce la società dei consumi come una forma di “totalitarismo soft”, destinato però a crollare. Nel corso dell’intervista, Latouche identifica l’obsolescenza programmata tra i tre pilastri che sostengono la società dei consumi:Quali sono le dimensioni di questa trappola? «La società occidentale per secoli ha fatto fatica a crescere, perché si produceva molto ma non si consumava abbastanza. Solo dopo la seconda guerra mondiale si è trovata la “soluzione”: la società dei consumi, la crescita infinita per l’eternità. Che poggia su tre pilastri: la pubblicità, il credito, l’obsolescenza programmata. La pubblicità crea il desiderio di consumare, rende perennemente insoddisfatti di ciò che abbiamo: porta l’infelicità perché dobbiamo essere infelici in modo da desiderare sempre qualcosa da comprare. Ma per farlo servono sempre più soldi e ci indebitiamo. Ed ecco che il credito fornisce i mezzi per consumare. Infine c’è l’obsolescenza ricercata, programmata: siamo costretti a consumare, perché i nostri oggetti si rompono molto più di prima e riparare costa più che comprare oggetti nuovi, i quali costano poco perché sono prodotti con lavoro pagato niente».E si apre il capitolo dello smaltimento dei rifiuti che porta a un altro, quello del riciclo… «Ogni giorno si gettano oggetti che contengono materie preziosissime. Si pensi ai cellulari, contengono il coltan, un minerale che si trova in Congo. Le multinazionali si fanno la guerra attraverso le tribù africane per contenderselo. Possiamo dire che i nostri cellulari sono bagnati col sangue africano che, a quanto pare, non conta nulla. Possiamo dire che viviamo in un sistema che è una forma di totalitarismo soft, dolce, del quale siamo complici. Tutto questo porta alla scomparsa della specie umana ».Come don chisciotte riporta il pensiero di Serge Latouche, considerato il padre della cosidetta “decrescita felice” (un movimento che ha trovato molti sostenitori anche in Italia). La ricetta per uscire dalla crisi e assicurarsi un futuro più sereno, è la decrescita: limitare i consumi, ridurre, abbandonare il progresso spinto a tutti i costi. Rallentare. Imparare ad aggiustare ciò che si guasta, anziché buttare e accumulare. Interessanti anche le riflessioni di Latouche sulla tecno-dipendenza:Piuttosto che buttare, riparo, anche se oggigiorno costa meno comprare un oggetto nuovo fabbricato in Cina. Ma preferisco appunto allungare la vita delle cose, o riciclare, combattendo così la filosofia dell’usa-e-getta, l’ obsolescenza programmata dei beni.. Non possiedo un cellulare, e sto bene così. Pratico quello che il mio maestro Ivan Illich chiamava “tecnodigiuno”.Non guardo mai la televisione e ho soltanto un computer che mi permette di consultare ogni tanto le email. Non mi collego ogni giorno alla posta elettronica, faccio delle lunghe pause anche in questo. Spesso scrivo lettere a mano perché è un modo di dimostrare a me stesso che non ho bisogno di una protesi elettronica per comunicare con gli altri.L’importante è resistere alla “tecno-dipendenza”. Si può usare la tecnologia ma bisogna evitare di esserne schiavi. Benché faccia tutte queste rinunce rispetto allo stile di vita moderno, non sono da compatire. Invertire la corsa all’eccesso è la cosa più allegra che ci sia. La mia unica regola è la gioia di vivere. E’ possibile immaginare una società ecologica felice, dove ognuno di noi riesce a porsi dei limiti, senza soffrirne perché non si sono create delle dipendenze. E’ ormai riconosciuto che il perseguimento indefinito della crescita è incompatibile con un pianeta finito.Se non vi sarà un’ inversione di rotta, ci attende una catastrofe ecologica e umana. Siamo ancora in tempo per immaginare, serenamente, un sistema basato su un’ altra logica: quella di una “società di decrescita”. Io parlo di decrescita felice, perché sono convinto che si tratta di piccoli aggiustamenti che ognuno di noi può fare senza soffrirne. Da giovane ero un economista esperto di sviluppo. Negli anni Sessanta sono stato in Congo e poi nel Laos per attuare programmi di sviluppo economico. E’ così che è incominciata la mia riflessione critica su questo modello di crescita continua. Pensavo essere al servizio di una scienza, in realtà si trattava di una religione. Gli economisti come me allora sono dei missionari che vogliono convertire e distruggere popoli che vivevano diversamente. Quando ho iniziato a non seguire più questa dottrina assoluta, in vigore ormai da decenni, ero molto isolato.Green Liquida dedica un pezzo ad una forma particolare di obsolescenza: quella che investe il campo della moda:La “moda lenta” è la risposta sostenibile all’obsolescenza programmata della moda veloce, che spinge un consumatore a cambiare foggia e colore dei vestiti prima che il capo sia consumato. Fino a qualche decennio fa un vestito veniva indossato in media 80 volte prima di essere dismesso, oggi la media si aggira sui 30 utilizzi. Il criterio di spesa per l’abbigliamento si è modificato: invece di investire in pochi capi costosi, la maggior parte delle persone oggi preferisce avere molti vestiti di minor prezzo. Ovviamente questo ricambio rapidissimo ha fatto lievitare l’impatto ambientale del settore: per fare tanti vestiti in fretta servono macchine e lavoratori che le facciano funzionare anche di notte.Eureka analizza il ciclo di vita delle cose che possediamo, un ciclo in cui nulla si crea e nulla si distrugge e che si snoda in una catena che va dall’estrazione, alla produzione, alla distribuzione, al consumo, allo smaltimento. Il popolo dei consumatori viene perciò indotto a consumare il più possibile, a far circolare le cose, grazie ai prezzi bassi e ai fenomeni c.d. dell’obsolescenza pianificata (deperibilità programmata degli oggetti) e dell’obsolescenza percepita (invecchiamento del design dell’oggetto, che viene eliminato anche se ancora perfettamente funzionante). Secondo alcune ricerche, gli americani vedono in media circa 3.000 spot pubblicitari al giorno e, proprio grazie a questi processi di condizionamento, il 99% degli oggetti acquistati negli Stati Uniti viene gettato nella spazzatura entro i 6 mesi successivi. Per smaltire tutte le cose di cui ci disfiamo, gli imballaggi e gli scarti, la differenziazione e il riciclo contribuiscono senz’altro a ridurre la massa dei rifiuti che vengono immessi nelle discariche e negli inceneritori. Eppure, riciclare i rifiuti domestici non basta affatto, perché per ogni chilo di rifiuti urbani, a monte, ce ne sono almeno 60 di scarti di produzione. La soluzione ai limiti di questo sistema lineare, secondo molti analisti, sta nel trasformarlo in un sistema circolare, che non sprechi risorse naturali e non vessi le risorse umane. Un sistema basato sulla sostenibilità ambientale, sull’economia verde, sull’equità, sulla produzione a ciclo chiuso, sulle economie locali, sull’energia rinnovabile, ecc. L’espressione economia circolare – che sta assumendo grande importanza ad esempio in Cina – indica gli scambi dei materiali e dei rifiuti eliminati da un’impresa (fra cui energia e acqua), che possono essere assorbiti da un’altra impresa, trasformando il loro statuto da rifiuto a risorsa. In sostanza, i settori commerciali, tra loro interconnessi, della produzione e dei servizi puntano, secondo questo modello economico, a migliorare l’economia e la performance ambientale collaborando alla gestione delle risorse e delle problematiche ambientali. Infine, Ideario de Revolucion humanista, partendo dall’obsolescenza programmata, amplia lo spettro di osservazione e analizza come il consumismo sempre più spinto abbia portato a cambiamenti profondi anche nella sfera dei valori e dei sentimenti, nonché  dei rapporti umani. La lotta tra essere e avere è stata vinta dall’avere, secondo chi scrive. Ciò ha portato ad un degrado delle relazioni, comprese quelle tra uomo e donna:Cose che poi sono progettate già per non durare o per passare di moda in tempi sempre più brevi (la cosiddetta “obsolescenza programmata”). Non solo, ma il consumismo ha finito pure per incidere, da ultimo, sui nostri valori fondamentali, sui principi e parametri di riferimento della nostra vita. Un consumismo sinonimo di svendita, saldo, superofferta, ribasso, prezzo scontato, offerta speciale, promozione, etc.. ha finito per trasmettere un senso di liquidazione, svalutazione e perdita di valore anche a virtù, principi e ideali. Onestà, moralità, integrità, lealtà, rispettabilità, serietà, decenza, correttezza… tutto finito nel supermercato dei valori, tutto relativo e prescindibile, tutto in vendita e al tempo stesso deprezzato: prendi tre paghi uno. L’antitesi classica e tormentata tra essere e avere è stata così felicemente risolta e superata: ha vinto l’avere, non c’è dubbio. E le persone sono cambiate anch’esse, adeguandosi. Il vero segno distintivo dei nostri tempi non è, come si potrebbe credere, internet o il telefonino, ma il degrado dei rapporti umani, la perdita di Umanità. Tutto e tutti tendono a diventare cose, merci da comprare, vendere, scambiare. Si è quel che si ha. Le relazioni si riducono a favori da ricevere, promettere e scambiare. Tutto e tutti hanno il cartellino del prezzo. Ogni cosa ha un suo valore: conoscenze, amicizie, informazioni, affetti. Ecco a cosa ci ha portati, gradualmente e senza accorgercene, il consumismo: persone come oggetti e oggetti come persone. Cani accuditi e viziati come figli, figli trascurati e abbandonati come cani. Un mondo in cui la gentilezza è scambiata per debolezza, la sensibilità per ingenuità, l’educazione per formalismo, l’intelligenza per pedanteria, la serietà per pesantezza. Un mondo in cui si rivendica con orgoglio e si esibisce sfacciatamente in pubblico ciò di cui ci si dovrebbe vergognare privatamente, mentre si umilia e insolentisce quello che andrebbe ammirato e portato ad esempio. La ragione è semplice: lo standard di condotta, di intelligenza, di capacità, di moralità, va livellato verso il basso in modo che tutti si sentano partecipi di un’unica grande famiglia. La persona troppo intelligente “deve” essere pesante, perché il consumismo vuole una massa stupida. La persona sobria “deve” essere percepito come manchevole e insufficiente, perché il consumismo deve alimentare il consumo. La persona seria “deve” essere uno disturbato, perché la superficialità, la leggerezza, la frivolezza sono il motore del consumo. I meccanismi virtuosi di emulazione sociale sono saltati, oggi si esalta e ammira Fabrizio Corona, non Leonardo da Vinci. Pasolini scriveva che “la società preconsumistica aveva bisogno di uomini forti, e dunque casti. La società consumistica ha invece bisogno di uomini deboli, e perciò lussuriosi. Al mito della donna chiusa e separata (il cui obbligo alla castità implicava la castità dell’uomo) si è sostituito il mito della donna parte e vicina, sempre a disposizione, l’obbligo che impone la permissività: cioè l’obbligo di far sempre e liberamente l’amore”. La è donna ridotta ad oggetto e felicissima di esserlo, perché raccoglie attenzioni e diventa centro del consumo: consumo di beni e consumo del suo corpo. Il femminismo è servito solo a “rivalutare” l’oggetto. Ci si ribellava prima ad essere oggetto di uso sessuale remissivo e rassegnato, si è felicissime oggi che si è oggetto di uso sessuale, ma in modo glamour e charmante.

 

 

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